Abbiamo imparato un sacco di cose su Joe Bonamassa durante la sua carriera: è un grandissimo chitarrista , si esibisce costantemente, esegue dei lunghissimi set ed è felice di suonare blues o funk o rock. Oh, è anche un bravo ragazzo, veste elegante sul palco e ama fare cose diverse ogni volta che imbraccia una chitarra.
Penso di aver recensito ogni suo album negli ultimi 6 o 7 anni e di averlo visto suonare dal vivo a Londra ogni anno sin dalla prima volta in cui si esibì qui, quindi posso tranquillamente dire di conoscere la sua musica più che bene; questo album mi ha davvero sorpreso.
Quando leggi il titolo "An acoustic evening" la tua mente probabilmente immagina un suono più soft rispetto all'impeto blues rock ed è cosi, a volte, specialmente in tracce come "Around the bend" dove Joe è accompagnato da Mats Webster (Nickelharpa) e Gerry O'Connor (con un violino irlandese) che compie un lavoro brillante sullo strumento, mentre dalla voce possiamo dire che Bonamassa è chiaramente LUI, anzi, sentirlo in un set acustico rende la sua voce ancora più espressiva. Nei suoi set c'è sempre stato un segmento, una parentesi acustica, ma era più una sorta di variazione invece di essere l'obbiettivo principale: qui non suona solo in modo naturale ma anche "giusto". In canzoni come Slow Train il violino segue i lick di chitarra e insieme accompagnano un pezzo che è chiaramente acustico ma pieno di potenza e atmosfera come nell'originale. Quando arrivi a un pezzo come "The Ballad of John Henry" la potenza della chitarra originale è rimpiazzata con una ritmica che lascia venire in superficie la qualità della canzone sottolineando quanto Bonamassa sia un ottimo songwriter al di là delle "acrobazie" chitarristiche. Non si avverte una carenza di chitarre e l'acustica riesce a rendere il solo ancora più coinvolgente mentre le percussioni di Lenny Castro guidano la canzone con potenza, lasciando spazio alla chitarra per permetterle di fare il suo lavoro.
"Jockey Full of Bourbon" vede protagonista il piano di Arlan Schierbaum e la fisarmonica, e rispetto all'originale di Tom Waits la canzone viene fuori in maniera eccellente.
Sono sempre stato un grande amante della versione di Joe di "Stones in my passway" e in questa versione è sublime. Viene fuori con una grande ritmica e cattura molto l'intenzione dell'originale. Inoltre introduce una sequenza pazzesca di pezzi: Ball Peen Hammer, Black Lung Heartache, Mountain Time e Woke up dreaming.
"Sloe Gin" è probabilmente la migliore canzone mai scritta da Tim Currey e la versione di Bonamassa è sempre stata la preferita del pubblico: questa canzone rispecchia davvero il sentimento, il senso di isolamento e tutta la solitudine contenuta in essa.
Potreste pensare che si tratti di una sorta di "Best Of" di Joe Bonamassa, ma ci sono cosi tante cose nuove che dopo le pubblicazioni della Royal Albert Hall e del Beacon Theatre la necessità era quella di "sfornare" qualcosa di fresco e nuovo, ed è proprio quello che accade qui. Le canzoni sono la vera forza, insieme all'esecuzione e alla delicatezza della voce, grazie anche all'acustica del posto.
Un disco sorprendentemente piacevole. Joe continua a farci stare seduti per prendere nota e sempre per un giusto motivo.
Nessun commento:
Posta un commento